Le lettere nel manicomio di Volterra
La ricordo benissimo la prima volta in cui ho messo piede a Volterra. Potevo avere al massimo otto anni. Ero piccola, ancora non sapevo niente dell’amore eppure sono sicura che quella fu la prima volta che m’innamorai. Non ci s’innamora soltanto delle persone, ma dei luoghi, delle sensazioni, delle strade, di qualsiasi cosa ti faccia emozionare.
Con Volterra – cittadina toscana che conta quasi 11mila anime – ho avuto subito questo rapporto, questa sintonia che ancora oggi a distanza di oltre vent’anni dura e che non saprei spiegare. Emozioni. Punto, non c’è altro che si possa aggiungere.
Volterra con la sua piazza dei Priori che soltanto a guardarla distrattamente toglie il respiro da quanto è maestosa e meravigliosa, con il suo Duomo in stile romanico, senza dimenticare le sue mura che l’hanno protetta durante le sue battaglie o la Fortezza Medicea costruita sul più alto ripiano volterrano. Città suggestiva – di chiara origine etrusca – è ricca di vicoli sotto i suoi palazzi che la rendono ancora più misteriosa e affascinante. Poi, dopo aver iniziato ad amare le sue bellezze mi sono documentata sulla sua storia per capire come e quando è stata edificata. L’ho scoperto, ma insieme a tutte quelle informazioni ho scoperto un dettaglio che mi ha legato ancora di più a lei. Non chiedetemi il perché.
Volterra è stata per secoli sede dell’ospedale psichiatrico, anzi userò il termine manicomio perché credo che indorare le pillole non sia mai servito se non a fingere che niente sia mai accaduto.
Nel 1887 al posto dell’ex convento di San Girolamo in zona Borgo San Lazzero nasceva l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, all’inizio con un solo padiglione che ospitava gli alienati, poi diventata vera e propria prigione per qualsiasi persona che mostrasse una qualche semplice diversità. Questo per dire che non sempre veniva internato chi davvero soffriva di una patologia. Ma non sono io a dover giudicare tutto questo, o forse sì. Lo posso fare io come lo possono fare tutti quelli che si sono documentati sulla sua storia incredibile quanto vergognosa.
Come ho preso informazioni sulla città, l’ho fatto anche su questa struttura che con il passare degli anni è diventata una delle più grandi d’italia e che, grazie alla legge 180 di Franco Basaglia è stata chiusa nel 1978, da allora è in stato di abbandono.
La cosa che mi ha colpito tra tutte le cose che ho letto e visto (e credetemi sono emozioni che bucano lo stomaco anche ai più duri) è stata la corrispondenza, gli scambi epistolari mai avvenuti tra i ricoverati e i loro familiari. Le lettere “semplicemente” non venivano recapitate ai pazienti perché secondo il personale medico potevano essere fonte di turbamento, quindi venivano direttamente inserite nelle loro cartelle cliniche. Ed è evidente che questo i ricoverati, gli stessi che scrivevano le lettere per comunicare con il marito, la moglie, i fratelli, i figli, i genitori, non lo avrebbero mai saputo. Per loro quelle lettere non avevano mai ricevuto risposta e si chiedevano il perché, si convincevano che i familiari non li volessero più che li avessero rinnegati e, se per alcuni poteva essere vero, per molti altri la storia non era questa. Lo dimostrano le migliaia di buste che arrivavano in manicomio dall’esterno. E a indagare ancora più nel profondo si scopre che quello che scrivevano gli internati veniva addirittura usato come prova per la loro malattia, quando c’era e quando non c’era. Insomma, il malato doveva restare isolato, nascosto, non poteva avere contatti con la società.
Il matto – uso volutamente questo aggettivo – non ha sentimenti, non ha emozioni, sogni, non ha speranze, non ha neanche il diritto di provare a reagire, ad avere una vita.
Preciso questi dettagli perché credo sia quantomeno doveroso non fingere, non restare in silenzio, ma dare voce in ogni forma possibile a tutte quelle persone che lì dentro non l’hanno avuta. Ecco perché spesso nei miei scritti e nei miei articoli parlo dell’ex ospedale psichiatrico.
Non mi soffermo, almeno non al momento su tutto quello che si nascondeva dentro quelle mura, ma voglio precisare una cosa a cui tengo moltissimo… Volterra non deve essere più associata a quelle immagini. Volterra è allegra, viva, storica. Volterra insegna attraverso i suoi vicoli che la Toscana riesce sempre a raccontare storie fatte di emozioni. Volterra che è mura e medioevo.
Il libro che vi consiglio: Forse che si forse che no, Gabriele D’Annunzio o se volete potrete anche leggere il mio In compagnia del caffé nero in cui ho provato a raccontare tutto questo con la voce di Bianca, ghostwriter che viene inviata dal suo capo a Volterra per curare la biografia di una novantaduenne che ha qualche problema con i ricordi…