We are Fashion Revolution

Per una moda eticamente trasparente. #fashrev

We are Fashion Revolution

24 aprile 2013, Dhaka, Bangladesh.

Il Rana Plaza è un edificio di 8 piani di puro cemento, all’interno dei quali migliaia di lavoranti sono stipati davanti alla macchina da cucire per produrre i vestiti di grandi catene di moda low-cost. Sottopagati, sfruttati, senza diritti. E’ una giornata come tante, ma fino ad un certo punto. Perché il Rhana Plaza crolla su se stesso all’improvviso, inghiottendo 1129 persone e ferendone 2515.

Forse vi ricorderete dell’episodio perché scatenò un putiferio nel mondo della moda e dei consumatori, l’indignazione per quanto era successo era enorme e diverse manifestazioni di protesta nacquero per accusare un mondo spietato e senza scrupoli, che sub-sub-appalta la produzione di abiti low-cost, che non si preoccupa della forza lavoro impiegata in qualche angolo sperduto della Terra e non si cura di accertarsi che i posti di lavoro siano a norma e di garantire un salario dignitoso ai lavoratori delle fabbriche. Dopo quell’episodio alcuni dei brand coinvolti (tipo H&M) garantirono più trasparenza e controlli più rigidi, ma il percorso per un cambiamento sostanziale nel mondo della moda è lontano e molto difficile.

Un movimento nato immediatamente dopo il crollo del Rana Plaza è Fashion Revolution. E’ un movimento che affonda le sue radici in 20 anni di lotte per affermare una moda più etica e lo fa appoggiandosi al tam-tam digitale, a Facebook e Twitter, ai lavoratori delle fabbriche, ai consumatori finali, ai designers. Lancia una campagna virale su Twitter #whomademyclothes che è un invito alla trasparenza e alla tracciabilità dei capi d’abbigliamento. La moda è l’industria più potente del mondo, la moda è ovunque ormai, chiunque vi lavora in qualche modo e ormai è facile perdere traccia di dove i vestiti che abbiamo in armadio vengono prodotti, è facile sub-sub-appaltare qualche azienda in Perù o in Bangladesh o in Cina che per pochi Euro produce a raffica le collezioni. #whomademyclothes è una richiesta legittima fatta ai brand per scoprire veramente chi ha prodotto quello che indossiamo. Per sostenere la campagna, Fashion Revolution ha distribuito materiale come etichette e poster da stampare in proprio ed esibire in un selfie con il vestito indossato al contrario, in modo che si vedesse l’etichetta originale. Dopo di che ha invitato gli utenti a taggare l’azienda e a chiedere da dove provenisse il vestito. E’ sorprendente vedere come certe aziende, come Zara, abbiano risposto immediatamente fornendo tutti i dettagli necessari, e molte altre, invece, rimanere in silenzio. Perchè poi rimanere in silenzio? Questi lavoratori hanno diritto di avere voce e volto. Questa campagna è un modo per aggiungere valore alla maglia di 2€ che abbiamo comprato in saldo da H&M, di riconoscere che queste persone sono esseri umani e che lavorano non solo per i brand di moda, ma anche per noi che poi quegli abiti li compriamo.

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Il Fashion Revolution Day, così è stato chiamato l’evento di #whomademyclothes lanciato proprio il 24 aprile 2014 e 2015 in memoria del crollo del Rana Plaza, non deve necessariamente esistere solo il 24 aprile. Una rivoluzione è attuabile se portata avanti con costanza ogni giorno, adottando dei comportamenti più etici, comprando con consapevolezza e amore tenendo davvero conto di cosa si sta acquistando e come e quanto lo indosseremmo poi.

Oggi ho scelto di parlarvi di Fashion Revolution perchè ieri ho avuto l’onore di assistere ad una mini conferenza di Orsola De Castro, fashion designer e leader di Fashion Revolution, che con passione e semplicità ha raccontato il suo percorso e perché lei e il suo team di professionisti nel mondo della moda ha deciso di fondare Fashion Revolution.

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Vi invito a sfogliare il sito www.fashionrevolution.org e ad aderire alla campagna #whomademyclothes, che ancora va avanti. Non abbiate paura a chiedere e a cambiare abitudini, a pretendere una moda più eticamente trasparente.

Volete conoscere di più su ciò che è accaduto a Dhaka? Vi invito a leggere, guardare ed ascoltare questo bellissimo articolo interattivo del The Guardian, pubblicato nel 2014 cliccando qui The Shirt On Your Back: the human cost of the Bangladeshi garment industry  con la speranza di farvi riflettere su ciò che comprate e sulla provenienza della maggioranza dei vostri vestiti.

A voi la parola.

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